Con “Il Diavolo e l’Acqua Santa”, secondo album del cantautore bergamasco Christian Frosio, emerge una voce artistica sempre più consapevole e incisiva.
Interamente arrangiato da lui, il disco alterna ballate intime a brani rock che affrontano tematiche sociali, restituendo alla canzone un ruolo critico e di resistenza. Rispetto all’esordio, qui si fa più forte l’urgenza di denunciare l’omologazione del pensiero, riaffermando la necessità di un’arte libera e non asservita al potere. Un lavoro che guarda al passato con rispetto, al presente con lucidità e al futuro con determinazione.
In questa intervista, Christian Frosio ci accompagna dentro le pieghe del nuovo album, tra i legami familiari, le influenze dell’adolescenza e l’importanza di coltivare un pensiero libero, anche — e soprattutto — quando fa sentire fuori posto.
INTERVISTA
“Capirsi” è un tentativo di riconciliazione con la figura paterna. Che rapporto hai con le radici?
Più che riconciliazione è una canzone di comprensione. La canzone è la voce di un figlio adulto che parla al padre di allora, quindi in coincidenza di età. Con la crescita si comprendono meglio alcune cose di se stessi e di chi ci sta accanto.
Le radici sono ciò che mi definiscono e a cui attingo per portare nella musica tutta l’autenticità che posso. E’ una fonte inesauribile di amore.
Quanto del tuo modo di fare musica deriva da ascolti legati all’infanzia o all’adolescenza?
Soprattutto l’adolescenza è stato il mio periodo di formazione diciamo così “emozionale”, in cui i tuoi riferimenti musicali diventano dei modelli da seguire (a volte anche illusori). Crescendo, però, ho cercato di attingere da altre fonti musicali, spinto dalla curiosità e dalla consapevolezza che fare musica è un percorso in continua evoluzione. Devo dire che, anche durante l’adolescenza, il mio ascolto non si è mai basato tanto sulla quantità, quanto sulla varietà di generi.
Il tuo è un cantautorato che guarda sia al passato che al futuro. A quali modelli ti senti più vicino?
La canzone d’autore classica italiana rappresenta per me un riferimento fondamentale. Paradossalmente, nel suo linguaggio musicale, la trovo spesso più moderna di molte produzioni attuali. Oggi sono cambiate le sonorità, creando un’illusione di modernità, ma dal punto di vista armonico la canzone si è impoverita notevolmente, per non dire azzerata. Per questo, guardare al passato, oggi, significa davvero guardare al futuro. L’ultimo disco del compianto Paolo Benvegnù ne è un esempio lampante: una canzone d’autore portata ad altissimo livello.
Come ti relazioni con le nuove generazioni di ascoltatori?
E’ una domanda da fare a loro più che a me. Io non vado a intercettare il pubblico, cerco la musica che è una cosa diversa. Gaber diceva di non essere schiavi del proprio pubblico. Questo non vuol dire chiudersi nel proprio mondo ma fare una propria ricerca continua senza ammiccare alla moda del momento.
Se dovessi far ascoltare il disco a un ragazzo di 16 anni, quale messaggio vorresti arrivasse?
Quello di non cercare il consenso omologandosi solo per sentirti accettato. Lo dico e lo canto nel disco. Cercare quindi la propria individualità, sviluppando un pensiero critico proprio. Portare avanti le proprie idee, anche quando queste sembrano scomode o fanno sentire fuori posto. Non avere paura di essere escluso o denigrato: da questo gioco di resistenza può nascere una grande forza.
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