Un nuovo capitolo che prende il nome di “Kafka For President”, un disco arrabbiato: nuotando nell’assurdo, racconta cosa succede alla mente quando galleggia e quando affoga.
Vivendo in una società capitalista, una società della performance, del consumo, dello sfruttamento lavorativo, del trauma, del privilegio e della discriminazione, cosa succede alla nostra salute mentale? Si rompe, si contorce e resiste. Un alternative rock che sa di anni 90: suoni acidi e distorti, batterie energiche e ritmiche scomposte, quasi nevrotiche, con un cantato recitato, urlato, talvolta morbidamente malinconico.
“In qualunque posizione stai pur sempre nella tua prigione. E la tua mente tenta l’atterraggio, la tua cravatta diventa un cappio” dice il testo del brano che dà il nome all’album di debutto dei Gamaar, il quale rende bene i temi del disco: claustrofobia sociale, frustrazione e l’esistenza come esperienza assurda e casuale alla quale sta a noi dare senso e bellezza.
Come sempre, abbiamo deciso di far loro qualche domanda!
INTERVISTA AI GAMAAR SU RADIO CITY LIGHT
Da cosa deriva il nome di “Kafka For President”?
“Kafka for president” è uno slogan, un inno alla presa di consapevolezza dell’assurdo e della società della performance, del lavoro e del profitto: un invito a riflettere su quanto tutto questo ci faccia sentire in gabbia, ci faccia divincolare e agitare dalla frustrazione.
E cosa vi ha colpito di più di Kafka e delle sue opere? Cosa ha che fare con voi?
Gabriella: Ho composto tutti i brani del disco in un periodo difficile: depressione e ansia avevano la meglio su tutto, ma non sulla musica. Riuscivo a scrivere, anzi non ho mai scritto così tanto. Un mio amico mi fece notare che i miei sogni e miei incubi erano molto kafkiani, e così iniziai a scoprire Kafka e le sue opere. Mai avrei immaginato quanto mi avrebbe appassionata e fatta sentire capita. I temi nei suoi racconti e romanzi non solo hanno a che fare con noi, ma con chiunque: domande senza risposta, esistenze insensate, corridoi, burocrazia ed uffici senza fine, paranoia, controllo, capitalismo e classismo. Tutti temi che sentivo vicini a ciò che volevo dire con la musica e che vivevo sulla mia pelle.
Come mai vi è così caro il tema della salute mentale? E in che modo la musica, ascoltarla e farla, può essere un beneficio?
Gabriella: Ci è cara perché è una questione reale e vicina a più persone di quante immaginiamo, se non a tutte, e tendenzialmente è ancora un tabù. I tabù sono inutili, anzi dannosi: penso che la comunicazione sia essenziale, e prendere consapevolezza di ciò che si prova, bello o brutto che sia, è comunicare con sé stessə. La musica e l’arte in generale possono essere un beneficio semplicemente perché hanno la capacità di farci sentire capitə, “abbracciatə” e quindi meno solə. Quando stavo molto molto male realtà artistiche come quella di Radiohead, David Bowie, Florence & The Machine, Fabrizio De Andre’, St. Vincent e tante altre mi hanno capita, mi hanno dato la forza di provare a far sentire allo stesso modo altre persone, di tendere loro la mano e dire “Ehi, ti senti così ed è uno schifo, urla questo brano o piangi cantandolo, e se può farti sentire meglio, lasciati abbracciare”.
Qual è la vostra vita, quella che non comprende la musica?
Beh ci sono io, Gabriella Diana, 28 anni, autrice, cantante e chitarrista del progetto. Ho origini pugliesi, ma vivo a Brescia dall’età di 7 anni. Al momento lavoro nella ristorazione, dopo essere stata anche commessa: nessun lavoro mi piace davvero, ma mi serve per mandare avanti il progetto musicale. Al basso c’è Cristian Bona, 30 anni, vive a Capriolo in Franciacorta, e di mestiere fa il liutaio: ripara e costruisce strumenti musicali, principalmente bassi e chitarre. Presenza fondamentale per questo progetto, è stato un fantastico collaboratore e amico. Ylenia De Rocco suona la batteria, ha 32 anni e vive a Bergamo. Nella vita è insegnante di batteria, di disegno creativo, e dipinge su commissione. Quando è arrivata c’è stata subito una bellissima intesa ed è una persona incredibilmente talentosa.
E l’ultima volta che avete metaforicamente indossato una cravatta?
Tutti i giorni! La “cravatta sociale”, se possiamo chiamarla così, la si indossa sempre e non possiamo sfuggirle: lavoriamo per guadagnare per spendere, mettiamo carburante all’auto per spostarci, andiamo a fare la spesa poi di nuovo a lavoro, poi a casa dove paghiamo luce e corrente, siamo come trottole in balia di regole decise secoli fa e che dettano il modo in cui dobbiamo vivere e pensare. La cravatta è un simbolo, un vestito che ci viene messo addosso appena nasciamo e di cui è quasi impossibile liberarsi.